Ultramobile – E la Luna Bussò: il violino di Arese compie 40 anni

Uscita 40 anni fa, l'Alfa6 fu un flop clamoroso. Ma è rimasta ugualmente nella storia


Sono in molti ad accusare l’Alfa Romeo di avere perduto la propria natura, nell’immediato Dopoguerra, ma il più delle volte si tratta di giudizi ereditati dai nonni di chi, oggi, è nonno da un bel pezzo. Nella realtà dei fatti, l’Alfa Romeo nacque producendo su licenza, esattamente come ha continuato a fare anche Due decenni dopo la Seconda Guerra Mondiale, con l’assemblaggio della Renault 4 e della Dauphine, che veniva commercializzata dalla rete del Biscione.

Allora, la Alfa uscivano da via Renato Serra, visto che Arese sarebbe stata inaugurata soltanto nel 1964, mentre la produzione di automobili al Sud sarebbe partita solo nel 1972, con l’Alfasud, ça va sans dire. L’Alfa, che ha sempre annaspato e cercato di arrivare integra a fine anno, Arna o non Arna, nonostante l’enorme patrimonio di conoscenze e l’impareggiabile capitale umano, fatto di ingegneri e personaggi che poi sono usciti per i fatti loro, come tale Enzo Ferrari, ha mantenuto fede alla sua identità fino almeno al 1986.

Non è da invasati, e nemmeno così banale, identificare la sua fine in quell’anno tragico. La responsabilità fu tutta di Romano Prodi, su pressioni di Gianni Agnelli, intento a sbarazzarsi di una concorrente in casa, e di sottometterla alle volontà degli ingegneri torinesi che, a parte eccezioni come la 130 (non voluta da Dante Giacosa, contrario a tutto ciò che non fosse un’utilitaria) e perle come la 124 Spider, successivamente rinnegata e regalata a Pininfarina, come fosse un regalo boomerang, poco o nulla possono dire, a proposito di sportività.

A quello, ci pensava Abarth, oppure Giannini. Oggi, a 40 anni dall’ultima sortita puramente Alfa Romeo in termini di motori, possiamo solo parlare di quel capolavoro del Busso, dal nome dell’ingegnere che lo ha pensato. Certo, Busso non è il nome di battesimo, ma non suonava bene chiamarlo soltanto Giuseppe. Giuseppe Busso ha disegnato uno dei massimi capolavori della Storia dell’Ingegneria motoristica, come fosse un’architettura di Gio Ponti: un 6 cilindri a V, a 60 gradi.

E’ la primavera del 1979, e il lancio avviene sulla nuovissima ammiraglia, arrivata con 6 anni di ritardo, e chiamata Alfa6. Così, tutto attaccato, come se ci si dovesse un po’ vergognare di chiamarla Alfa Romeo, come a darsi un voto da soli, in termini di competitività. L’Alfa6, infatti, fu un flop clamoroso, perché consumava come una petroliera che perde, ma aveva il vantaggio di non affondare mai.

Nonostante il peso, nonostante sbalzi anteriori e posteriori assolutamente fuori sincrono rispetto alle tendenze del periodo, l’Alfa6 aveva un’eccellente tenuta di strada, capace di sbaragliare la BMW Serie 7 di allora, prima ammiraglia a montare il Jetronic Bosch, e aveva una buona tenuta sul bagnato, cosa sconosciuta alle berline bavaresi di allora, se non negli episodi di Derrick, dove comunque è nuvolo, ma piove poco. Appena pioveva, tiravano fuori le Alfasud, tant’è vero che i tedeschi siano i veri amatori della piccola figlia di Giugiaro e Hruska, ma questa è un’altra histoire.

L’Alfa6, che comunque piace molto all’autore di questa cosa che state leggendo, è stata quindi l’ultima luce accesa, l’ultimo giro di faro di quello che è stata l’Alfa Romeo, e per questo va ricercata e messa in garage, ammesso che sappiate trovarla, ammesso che non sia ridotta a un cumulo di ruggine (cataforesi, questa sconosciuta) e ammesso che abbiate il buon gusto di non avere gusto, ma di amare la follia di una linea così anomala. Anomala, ma perché? Perché il ritardo di Sei anni non le giovò.

Certo, non è che la Serie 7 fosse così diversa, rispetto a lei, ma era un po’ più proporzionata e aveva il posteriore più sfuggente, più sportivo. La Serie 5 E12, così come la E28 che uscì di lì a poco, era già su un gradino inferiore, e competeva con l’Alfetta, oltre a uscire quando doveva uscire, ossia nel ’72. Se l’Alfa6 fosse uscita nel ’73, l’accetteremmo di più, ma a stroncarle la carriera fu la guerra del Kippur, la crisi petrolifera, le domeniche in risciò, manco fossimo sotto Mao Tse Tung.

La crisi le tagliò le gambe, così come accadde ad altri capolavori, come la Citroën SM di Robert Opron, come la Fiat 130 Coupe di Paolo Martin. Un’ecatombe. Un’ammiraglia fantasma, un ectoplasma dei listini, fino al debutto della stiracchiatissima Alfa 90, che altro non era che un’Alfetta rifatta con il righello, e con un Casio al posto del cruscotto. Anche lei, per il sottoscritto, assolutamente bella, poichè è bello ciò che piace.

Casualmente, l’Alfa6 la si ritrova su una pellicola cinematografica di grande successo, che si confà al suo ruolo fantasmatico: “Asso”, con Adriano Celentano e la sempiternamente stupenda Edwige Fenech. Viene guidata da un Adriano fantasma, scambiata per un’auto telecomandata, e ha un ruolo di primo piano, in tutte le scene finali del film, che peraltro ispirò “Ghost”. Lì, l’Alfa6 fa un figurone, ma ormai è tardi. Due anni dopo, debutterà il restyling, uno dei più indecenti della Storia, con la sostituzione dei doppi fari tondi anteriori con un orribile rettangolo tergifarizzato, fascioni in plastica pesantissimi e un posteriore plastificato, a sua volta.

Si fa più comoda, si fa più parca, ma ciò non la salverà dal dimenticatoio anticipato. Tuttavia, pare che l’ultima Alfa6 venduta come vettura nuova, sia stata immatricolata in Italia nel 1987. Praticamente, mentre andava in onda Fantastico 8, mentre l’Italia viaggiava a una velocità più importante, mentre gli Anni di Piombo erano un ricordo e mentre debuttava la 164.

Ma in Italia, a stranezze di questo tipo, siamo abituati.