Transgender e LGBTQ+: la complessità della sessualità umana tra aspetti neurobiologici e socioculturali

Approfondimento del prof. Zoccali sulla complessità dell’identità transgender tra aspetti neurobiologici e influenze socioculturali, con uno sguardo all'evoluzione del DSM


“la sessualità è regolata da norme” per cui l’elemento naturale si trasforma in elemento culturale”. (Romolo Rossi)

Nei precedenti articoli ci siamo soffermati sulla “complessità” del comportamento sessuale e sul concetto di omosessualità e bisessualità. La necessità di suddividere l’argomento in tre articoli è nata dalla presa d’atto che l’acronimo LGBTQ+ fa riferimento all’orientamento sessuale e all’identità di genere ma include uno spettro di vissuti alquanto differenti che hanno in comune, quale denominatore, il dissenso verso l’opinione che l’orientamento eterosessuale sia l’unico legittimo e che il genere maschile e femminile siano gli unici ad esistere.

Secondo il DSM 5 il termine Transgender fa riferimento ad un “ampio spettro di individui che si identificano in modo transitorio o persistente con un genere diverso da quello assegnato alla nascita”.

Il termine Transessuale fa riferimento ad “un individuo che desidera attuare o ha attuato una transizione sociale da maschio a femmina o da femmina a maschio, che in molti casi, anche se non in tutti, comporta una transizione somatica per mezzo di un trattamento con ormoni del sesso opposto e chirurgia degli organi genitali”.

Il DSM IV TR (Edizione anno 2000) includeva il transgender quale patologia con la denominazione di “Disturbo dell’Identità di Genere” e il criterio diagnostico specifico era: “Una forte e persistente identificazione col sesso opposto” Il DSM 5 (Edizione anno 2022) ha eliminato dalla nosografia il Disturbo dell’Identità di Genere e ha inserito una nuova categoria patologica definita “Disforia di genere” il cui criterio diagnostico specifico è il seguente: “Una marcata incongruenza tra il genere esperito/espresso da un individuo e il genere assegnato”, disforia che determina marcata “sofferenza che può accompagnare l’incongruenza tra il genere esperito o espresso da un individuo e il genere assegnato”(DSM5).

Secondo quindi il DSM 5 essere transgender non è considerato un disturbo mentale; il disturbo insorgerebbe nel caso in cui dovesse insorgere disagio e sofferenza a causa della discrepanza tra il genere assegnato alla nascita e l’identità di genere. Nel ribadire che qualsiasi tipo di stigma dovrebbe essere sgradito, ripugnante, in una società civile, sia se trattasi di disturbo sia se trattasi di diversità, ci si dovrebbe comunque chiedere se, identificarsi con un genere diverso da quello assegnato alla nascita, possa non dare sofferenza e disagio. Certamente l’inclusione sociale può ridimensionare determinati vissuti e conflitti, ma l’elaborazione dell’accettazione della propria diversità non può essere un processo privo di tribolazioni e disagio per cui si può ipotizzare che tra il soggetto che vive come “diversità” l’identificazione con un genere differente da quello assegnato alla nascita e il soggetto affetto da “disforia di genere” ci sia un continuum e non una demarcazione di confini.

Il problema che ambiguamente differenzia la diversità dalla patologia, nasce dal preconcetto che viene inserita in un’unica categoria fenomenica un vissuto e un comportamento che è sotteso da fattori causali diversi.

Nel caso dell’identità transgender la causalità è multifattoriale: biologica e psico/sociale. Tra i fattori biologici la genetica potrebbe giocare un suo specifico ruolo evidenziato da studi su gemelli sia omozigoti che dizigoti che hanno permesso il riscontro di una ereditabilità fino al 70%. L’esposizione, durante il periodo di gestazione, a determinati livelli di ormoni, come il testosterone e gli estrogeni, potrebbe incidere sullo sviluppo del cervello; infine, alcune ricerche hanno permesso il riscontro che, nei soggetti transgender, le stesse strutture cerebrali presentano caratteristiche più affini al genere percepito rispetto a quello assegnato alla nascita. Per quanto riguarda i fattori psico/sociali abbiamo pareri discordi.

Da un lato i teorici classici ritengono l’essere transgender una manifestazione psicopatologica correlata ad un malessere profondo (trauma, difesa dalla psicosi, identificazione alle aspettative genitoriali), dall’altro i teorici queer sostengono che non esiste una “normalità” teleologica dello sviluppo sessuale e che le categorie non sono binarie ma fluide e contingenti, condizionati dalla cultura. Il termine “queer” esprime una critica all’idea che l’eterosessualità sia l’unico orientamento legittimo.

Le persone che si identificano come queer sostengono che sia le identità di genere che gli orientamenti sessuali sono dinamici e in continuo cambiamento, e che non è possibile classificare rigidamente gli individui in categorie prestabilite.

La verità, secondo il mio modesto parere, sta a metà strada tra queste interpretazioni estreme anche perché entrambe non sono supportate da studi di ricerca sufficientemente confermati e scotomizzano l’indubbia rilevanza biologica. La libertà di decidere il proprio genere è una illusione in quanto non radicata nella realtà del sesso biologico anche se si interviene chirurgicamente per cambiare il corpo. Il corpo sessuato è fondamentale nella modalità in cui la propria identità di genere viene sperimentata. Il sesso biologico non può non essere che fisiologicamente binario, il genere può anche essere fluido ma la binarietà è uno schema di riferimento che dà senso e struttura all’esperienza di sé e che consente la stessa possibile fluidità che nella popolazione si riscontra tra lo 0,3/0,6 %. Possono esserci 50 sfumature tra il bianco e nero ma le stesse sfumature esistono in relazione ai due parametri binari.

Una cultura che pretendesse di eliminare la binarietà determinerebbe un venir meno dei processi di identificazione primaria favorendo un incremento della psicopatologia.