23 maggio 1992, ‘l’attentatuni’ di Capaci: nulla al caso. Così morì Falcone

Sono trascorsi quasi 30 anni ma il ricordo di Falcone è ancora molto vivo, in ognuno di noi

Strage Falcone

La bomba che esplode, le auto lanciate per aria a decine di metri di distanza, l’autostrada che sparisce sotto cumuli di detriti e morte.

È il 23 maggio del 1992, una giornata di primavera come tante, mancano una manciata di minuti alle 18. Il corteo di auto blindate partite qualche minuto prima dall’aeroporto di Punta Raisi sfreccia verso Palermo sotto gli occhi del commando di fuoco.

Una staffetta le segue su una strada parallela, un’altra le osserva da più lontano, dall’alto di una collinetta. Niente è lasciato al caso: Giovanni Falcone deve morire quel giorno.

“L’attentatuni” di Capaci segna l’inizio della stagione delle stragi firmata da Cosa Nostra (nel giro di pochi mesi altre bombe porteranno morte e disperazione a Palermo in via D’Amelio, ma anche a Roma, Milano e Firenze) e rappresenta, forse, il punto di non ritorno nella società civile italiana, che da quel giorno si accorgerà con notevolissimo e colpevole ritardo, che quello della mafia non era mai stato solo un problema delle regioni del meridione.

29 ANNI FA LA MORTE DI CINQUE EROI

Quel giorno di 29 anni fa, in quello spicchio di Sicilia già azzoppato dalle continue azioni del crimine organizzato, morirono il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro:  caduti per ordine della commissione di cosa nostra, uccisi con una bomba fatta con quasi mille chili di tritolo, trucidati in risposta alle condanne del maxiprocesso diventate definitive da poche settimane.

Un episodio tremendo che è diventato ormai un pezzo di memoria collettiva.

Le sigle delle edizioni straordinarie dei tg, le immagini sfocate dei primi inviati da cui non si riusciva nemmeno ad intuire il percorso dell’autostrada saltato in aria, la sorpresa e l’orrore per le notizie che arrivavano dagli ospedali cittadini: tutti conservano il proprio ricordo di quella strage orrenda.

29 MAGGIO 1992, NULLA FU LASCIATO AL CASO

Una strage che Cosa Nostra aveva preparato con cura maniacale, preoccupandosi di tracciare anche dei segni sull’asfalto in grado di facilitare il compito di chi avrebbe premuto il bottone di un banale radiocomando d’aeromodellismo trasformato in congegno di morte.

E se a premere il bottone era stato il capo del mandamento di San Giuseppe Jato, quel Giovanni Brusca poi diventato collaboratore di giustizia, a decidere della morte del giudice che assieme a Paolo Borsellino aveva tracciato la risposta dello Stato all’antistato mafioso, era stata la Commissione di Cosa Nostra nella sua interezza.

Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Salvatore Madonia, Giuseppe Calò, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano: era stato il gotha della criminalità organizzata siciliana a sottoscrivere l’omicidio di quel giudice diventato ormai, suo malgrado, il simbolo stesso di un Paese (o almeno di una parte di esso) che aveva smesso di inchinarsi allo strapotere della mafia.

Sono passati quasi 30 anni da quel pomeriggio di maggio ma il ricordo del giudice Falcone è ancora vivo: vivo nei cortei degli studenti che lo ricordano ogni anno; vivo nell’esempio di chi, istituzioni e semplici cittadini, continua a seguirne la strada; vivo in chi, come lo stesso Falcone, crede che la mafia non sia invincibile ma sia un fenomeno umano e come tale, destinato inevitabilmente ad avere una fine.