‘South working’: il lavoro smart potrebbe ripopolare il Meridione
Con il lavoro agile tantissimi cervelli in fuga sono rientrati al Sud e possono diventare un motore economico davvero importante
20 Agosto 2020 - 17:01 | Comunicato
Città deserte: pochi turisti in giro, uffici svuotati e di conseguenza bar senza avventori, ristoranti dove era necessario prenotare per trovare posto e ora si e no aperti, tanti appartamenti senza affittuari. Lo scenario, abbastanza apocalittico in città grandi come Milano ad esempio, è un day after da lockdown (oltre che da vacanze estive).
È destinato a durare? È la domanda fondamentale da porsi come conseguenza sociale ed economica di quello che è stato ribattezzato ‘south working‘, ossia il trasferimento/la fuga dei lavoratori e degli studenti fuori sede rientrati subito dopo la riapertura con la fase 3 nei luoghi di origine. E lì rimasti dopo aver riabbracciato genitori e affetti dopo i 70 giorni di quarantena. Continuano a lavorare da lì, hanno disdetto gli affitti, restituito le chiavi con tutto quello che comporta sul territorio: bar e ristoranti senza i clienti fissi (e senza gli occasionali turisti), palestre, negozi, ecc ecc.
Quello che poteva essere un fenomeno momentaneo legato appunto al subito dopo la fine del lockdown si sta prolungando anche perchè gli esami all’università sono a distanza, il lavoro negli uffici ancora in smart working e dunque che senso ha andare via da casa per tornare in posti dove lavorare/studiare comunque da dentro casa? Il risultato è la desertificazione e la crisi economica di quelle città che sui ‘fuori sede‘ hanno costruito un’economia.
Secondo una stima de Il Sole-24Ore, riportata da Pambianco, in 20 anni Milano ha guadagnato circa 100mila residenti provenienti da altre regioni d’Italia, soprattutto dal Mezzogiorno, e una parte consistente di questi, con la pandemia, è rientrata nella propria terra, continuando a lavorare online, ma non consumando più a Milano.
“In questo momento, è difficile calcolare una perdita media del comparto in città, perché ogni quartiere fa storia a sé”, ha spiegato a Business of Milan Carlo Squeri, segretario generale di Epam-Confcommercio. “In pieno centro, la perdita di fatturato per alcuni locali si può misurare nell’ordine del 75% e la situazione peggiore è legata alle attività diurne, proprio perché gli uffici sono chiusi e i dipendenti non escono a pranzo”.
Le prospettive? Incerte, si prevede un ritorno alla normalità ma graduale e non ai livelli precedenti. Lo strumento dello smart working, che già esisteva, sta conoscendo un boom con il quale ogni ufficio farà i conti. Una modalità di lavoro, quella del ‘remoto’ che da “concessione” di qualche azienda smart è diventata giocoforza l’unico modo per far sopravvivere molte imprese in epoca di lockdown.
“Milano era una città nella quale circolavano tre milioni di persone al giorno, il doppio dei suoi abitanti”, ricorda il segretario di Epam. Oggi la città è dei milanesi, non dei turisti e non degli uomini d’affari. E nemmeno degli studenti, come appare chiaramente per chi si trova a frequentare quartieri come Città Studi. Un’assenza, quella dei fuori sede, che colpisce il settore della ristorazione non solo per quanto riguarda i mancati incassi, ma anche per l’offerta di lavoro, visto che lo studente che condivideva un appartamento in affitto era un target ideale a cui attingere per ristoranti, bar e locali notturni come collaboratore più o meno occasionale. Quello che sta capitando a Milano non è ovviamente isolato anche se in Italia è la città più colpita dal ‘south working’. Non solo il fenomeno riguarda anche tutti quei lavoratori e studenti fuori sede e fuori Italia che stanno studiando e lavorando da remoto non più a Parigi, Londra, Barcellona ma da casa di mamma e papà.
E non riguarda solo l’italia: The Economist a maggio ha pubblicato un’inchiesta, “Working life has entered a new era”, in cui si parlava di BC (before coronavirus) e AD (after domestication). Secondo l’autore, non sarà facile tornare nell’era BC: i datori di lavoro risparmiano sui costi, i lavoratori apprezzano il famoso agognato work life balance, l’ equilibrio vita privata/lavoro. Il National Bureau of Economic Reserch, l’Nber americano, da mesi studia gli effetti della pandemia sul futuro delle nostre vite e ha dedicato a fine giugno un report in cui analizza, sul fronte Usa, il futuro dello smart working prevedendolo un cambiamento permanente per il 40% delle imprese.
Sarà davvero così? Avremo una formula ibrida dunque temperata? Intanto, generalizzando, se al Nord si piange per questo fenomeno, al Sud si sorride: i cervelli in fuga sono rientrati e possono diventare un motore economico importante.
Intanto onore al merito ad un gruppo di giovani di Palermo. Sono stati loro a etichettare questo fenomeno con il nome di ‘south working’, lavorare da sud (ma anche studiare è lo stesso). Hanno ideato una organizzazione no-profit che è un progetto di Global Shapers Palermo Hub, per studiare il fenomeno dello smart working localizzato in una sede diversa da quella del datore di lavoro, in particolare dal Sud Italia, con i suoi pro e contro, ma anche aiutare lavoratori che vogliano intraprendere questa modalità di lavoro e formulare delle proposte di policy in questo campo.
L’obiettivo di lungo termine, dicono, è quello di stimolare l’economia del Sud, aumentare la coesione territoriale tra le varie regioni d’Italia e d’Europa e creare un terreno fertile per le innovazioni e la crescita al Sud. La premessa è che i problemi del Meridione erano noti anche prima del 2020, dalla recessione economica alla “fuga dei cervelli”.
Questo periodo di emergenza sanitaria ha costretto il mondo del lavoro a livello globale a fare i conti con il lavoro a distanza e il lavoro agile. E se qualcosa di buono può essere tratto da questa tragica crisi, per quanto riguarda questi ambiti nasce forse la possibilità, per i territori del Sud, di accogliere lavoratori di aziende basate altrove stabilmente in smart working.
Fonte: Ansa