La salute mentale e i suoi disturbi, Franco Basaglia: storia di una rivoluzione dimenticata

La legge Basaglia 46 anni fa chiudeva i manicomi. Cosa resta di quella rivoluzione?

Salute Mentale

“Per poter veramente affrontare la “malattia”, dovremmo poterla incontrare fuori dalle istituzioni, intendendo con ciò non soltanto fuori dall’istituzione psichiatrica, ma fuori da ogni altra istituzione la cui funzione è quella di etichettare, codificare e fissare in ruoli congelati coloro che vi appartengono”

Sin dalla fine dell’Ottocento, nell’Italia influenzata dal fermento culturale e scientifico europeo, gli ospedali psichiatrici, conosciuti anche come manicomi, sono stati i luoghi principali di cura per i pazienti affetti da disturbi mentali. Sebbene inizialmente animati dallo spirito positivista dell’epoca,  col passare del tempo i manicomi hanno finito per diventare luoghi di segregazione sociale e di tortura, dominati dalla scarsa considerazione per la dignità umana e dall’adozione di pratiche mediche discutibili. Questo accadeva perché il malato di mente era considerato pericoloso socialmente e meritevole dell’allontanamento dalla collettività, con la complicità di una comunità scientifica che aveva fatto della disciplina psichiatrica uno strumento di controllo sociale.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, i venti di riforma europei, alimentati dalla nascita della democrazia sociale e da movimenti che ne sono derivati, influenzarono anche l’Italia, portando a nuove riflessioni sulla malattia mentale. In questo contesto politico e culturale emerse il movimento della Psichiatria Democratica, con l’obiettivo di riformare radicalmente il sistema psichiatrico, ponendo l’accento sul rispetto della dignità e dei diritti dei pazienti.

Franco Basaglia (1924-1980) è stato il fondatore di Psichiatria Democratica, fautore delle teorie che sostenevano la necessità della chiusura degli ospedali psichiatrici tradizionali e la creazione di una rete di servizi comunitari.

Lo scopo di Basaglia, considerato all’epoca dei fatti un visionario, era quello di mutare il paradigma secondo cui il malato psichiatrico era da considerare “pericoloso” per la società, da tenere dunque in manicomio, lontano dalla comunità civile. La sua opera iniziò fra Gorizia e Trieste, attraverso una lenta azione rivoluzionaria, costellata da continui ostacoli politici e ideologici, dapprima con un rinnovo degli ospedali psichiatrici in cui lavorò e infine con la chiusura definitiva del manicomio di Trieste e la strutturazione di una rete di assistenza sociale che aiutava i malati a riprendere possesso della propria esistenza.

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Il processo da lui iniziato ebbe risonanza nazionale, portando alla promulgazione della legge 180 del 1978, conosciuta come legge Basaglia, che ha segnato una svolta storica nell’assistenza psichiatrica in tutta Italia.

Tale legge prevedeva l’abolizione definitiva dei manicomi e promuoveva un approccio non più basato sulla “custodia” del paziente psichiatrico ma sulla sua cura e sulla sua riabilitazione. Il progetto legislativo stabiliva la deistituzionalizzazione, cioè il trasferimento dei malati dai grandi istituti alle comunità locali, e che venisse adottato un approccio più umano, inclusivo e centrato sulla persona.

Assimilata successivamente dalla legge n. 883/1978 che istituì il Sistema Sanitario Nazionale, la legge Basaglia, tuttavia, faticò ad imporsi lungo tutto lo stivale, scontrandosi con una impreparazione gestionale e culturale non ancora pronta ad accogliere una rivoluzione di questa portata.

A distanza di decenni, ancora oggi, la parziale attuazione della legge Basaglia spiega come mai, mentre in Friuli-Venezia Giulia si assiste alla presenza di servizi che sostengono l’autonomia dei pazienti (che abitano a casa loro, che lavorano e che diventano una risorsa per la comunità), in altre parti d’Italia esistono perlopiù residenze psichiatriche convenzionate (capillarmente diffuse come “piccoli manicomi bianchi”) che spesso, non riuscendo a garantire la corretta riabilitazione dei pazienti, diventano i nuovi luoghi di “re-istituzionalizzazione” dei soggetti psichiatrici.

In questo contesto, persistono ancora oggi le immagini stigmatizzanti associate alla malattia mentale a cui ormai siamo assuefatti. La storia della psichiatria ci insegna chiaramente che non esiste il “pazzo”, inteso come il malato che racchiude in sé tutta l’alienazione e la devianza della società, né che il disagio psichico renda l’individuo intrinsecamente più pericoloso, violento o aggressivo della popolazione generale. A 46 anni di distanza dalla promulgazione della Legge Basaglia, questi stereotipi riecheggiano nell’immaginario collettivo, alimentando, con la complicità colpevole dei mezzi di informazione, il binomio “malattia mentale-pericolosità”, confondendo piani differenti e favorendo la paura e l’incomprensione del disagio psichico (di fatto mai realmente superate).

Se Basaglia ha provato ad insegnarci che la malattia mentale è altro, ancora oggi non è difficile trovare, anche fra gli stessi colleghi medici, chi pensi che il “pazzo” vada allontanato dalla società perché pericoloso e non recuperabile.