Mauro Corona: una lacrima color turchese, lettura estiva del tutto imprevista!
29 Luglio 2018 - 15:20 | di Eva Curatola

“Dio non ci dimentica mai, siamo noi che dimentichiamo Lui.” (Mahatma Gandhi)
di Maria D’Amico – Buona domenica lettori e bentornati nella nostra rubrica, #insidethebook, anche oggi, ha intenzione di stupirvi!
È luglio lo so, e mentre il resto del mondo presenta una carrellata di letture estive da godersi sotto l’ombrellone, io vi catapulto nel cuore del gelo invernale, in una piccola baita sconosciuta, in un paese sperduto abitato da uomini comuni, nel periodo più “amato” dell’anno: Natale.
Una lacrima color turchese è un racconto di Mauro Corona, autore italiano cui darei volentieri un Nobel se solo potessi! Vi starete chiedendo perché ho avuto la brillante idea di scovare un libro natalizio in piena estate. Innanzitutto, ho una sorta di avversione per tutto ciò che è considerato “normale”, non perché andare controcorrente, fa tanto ultima tendenza, ma perché non ho mai capito cosa dovrebbe essere normale e soprattutto per chi? Per me, mangiare il gelato a dicembre è assolutamente normale, così come leggere il romanzo: Canto di Natale di Dickens a Ferragosto! Siamo uomini liberi! Ma questo non è l’unico motivo, anche questa settimana i fatti di cronaca mi hanno colpito e non in positivo; dalle notizie di violenza alla “crociata” (scusate il gioco di parole), per l’affissione dei crocefissi appesi in ogni dove, come se bastasse questo a renderci dei veri cristiani. È davvero triste costatare quanto il mondo possa essere insensibile, superficiale, povero e ami perseverare nella sua ignoranza e cupidigia.
Tutto quello che vorrei dirvi, tutto quello che penso a riguardo, l’ha già scritto lui, il nostro autore di oggi. Corona ha ideato una storia di fantasia che è più reale di quello che sembra, ha deciso di sbattere nero su bianco la verità e chiamarla fiaba. Magari perché, le fiabe, hanno sempre una morale, magari perché hanno il potere di rimanerti dentro e farti riflettere, o forse è stato solo un modo per arginare eventuali critiche:
“Principiare una fiaba natalizia il primo giorno d’estate può sembrare balordo. Ma io sono balordo. Mi è venuto in mente di dare inizio a questo progetto e quando una roba urge, ogni giorno va bene, come va bene un vino cattivo quando non c’è quello buono. Va bene tutto e in ogni stagione. Sarà una specie di fiaba che metterà a nudo l’ipocrisia del natale e di tutti i buonisti a tempo determinato. Quelli che la domenica vanno a messa, fanno segni di croce e onorano le feste comandate e non sanno cosa sono la tolleranza, la carità, la generosità, il perdono. Che sono razzisti, xenofobi e falsi. Qui si ritroveranno tutti, anche se, ovviamente, daranno la colpa ad altri di quel che succederà.”
Dopo aver dato uno sguardo alla prefazione dell’opera, il fatto che io ne parli in piena estate, mi fa sorridere anche di più, ma che io e l’autore ci trovassimo in sintonia l’ho capito ad ogni pagina con più forza. La storia è semplice quanto assurda, è cinica e diretta, ma soprattutto non ammette alcun tipo di “vigliaccheria narrativa”, è lo specchio della nostra società, del nostro modo di vivere all’insegna del consumismo e dell’amor proprio ma non è mai banale né scontata. Corona riesce a tenere alta l’attenzione del lettore per tutta la durata del racconto, non ha intenzione di addolcire la pillola, non ha paura di offendere le figure sociali di spicco anzi, le cita, le descrive, le analizza e puntualmente le fa a pezzi e tira fuori il marcio che ognuna di queste racchiude dentro quei vuoti sorrisi e quelle false promesse elargite quotidianamente al popolo.
È la mattina di Natale, il paesino è in festa, ci sono luci e pacchi scintillanti dappertutto, la gente si mostra più cordiale e affabile, come da tradizione. Ogni buon cristiano che si rispetti, inizia la sua routine natalizia e si sveglia presto per due motivi: tirarsi a lucido e andare in Chiesa (per lavare via i peccati e sentirsi in pace con la coscienza) e, per i più piccini, aprire i regali ovviamente. Che dire… una festività piena di senti-menti.
Questa volta però, tra i pacchi da scartare manca qualcosa… inizialmente quella “mancanza” è quasi impercettibile, nell’aria si avverte un cambiamento, come se improvvisamente tutto si fosse spento. Non c’è gioia, neppure nella versione surrogata da centro commerciale, non c’è speranza neanche tra i più ottimisti, non ci sono amore e compassione neanche tra le mura di una Chiesa. Gesù bambino è scomparso. Da ogni presepe, in ogni luogo del mondo, qualsiasi statua creata per raffigurarlo, anche nel più grossolano dei modi, è sparita. Nei presepi viventi, persino i bambini che giacevano nella mangiatoia sono scomparsi (per poi essere ritrovati nelle proprie culle), una perdita così, riesce a gettare l’intera umanità nello scompiglio più totale.
La cosa “buffa” è che, fino a quel momento, nessuno ci ha mai fatto veramente caso a Lui. A Natale addobbiamo l’albero con una tale dovizia, che sembra che la nostra vita dipenda solo da quante cianfrusaglie riusciamo a incollargli addosso, poi la corsa ai regali e infine prendiamo dalla scatolina quel piccolo presepe già fatto e lo poggiamo sul primo mobile utile. Ecco, la grandezza della nostra festa.
Ma come può una statuina sparire così? Per il clero, il colpevole era il diavolo! “Non avendo altre spiegazioni misero di mezzo lui, che fa sempre comodo”, la maggior parte delle persone, dallo shock, non disse nulla, si limitava ad aspettare, convinti che bastasse il tempo a risolvere il mistero. Eppure i giorni passavano e del Bambin Gesù non si avevano notizie, lo stupore divenne curiosità e poi orrore.
“I più scalmanati a inveire erano di grosso calibro. Politici inquisiti… Cardinali con attici nella capitale degni di nababbi volevano capire. Mentre la gente, invece, voleva capire come loro avessero quegli attici. E poi, sempre in quel seno inespugnabile, pedofili, adescatori di giovinetti saltavano nelle sagrestie indignati dalla scomparsa del Bambin Gesù. Non passava nemmeno nella testa, ai signori tonacati, che anche i bambini indifesi e violati erano dei piccoli Bambin Gesù.”
L’autore non risparmia nessuno e ha tutte le ragioni per farlo. Mette in bocca ai presunti sapienti le teorie più vane infiocchettate di nulla, tira in ballo gruppi di tre, cinque, venti uomini, le cosiddette “giurie” e, con ironia e sarcasmo, li dipinge per ciò che sono, “giudicatori” specializzati dei campi più disparati e inutili. Tira in ballo ladri, saccenti, ignoranti, artisti, economisti, persino Bruxelles, pronta a sciorinare sempre qualche ottima trovata per qualsiasi problema, che esista o no. Parleranno tutti e non diranno nulla.
Chi avrà il buon senso di tacere abbasserà la testa archiviando l’accaduto, aspettando che qualcuno trovi la soluzione, aspettando che qualcuno smascheri il colpevole. Perché la caratteristica “meravigliosa” dell’uomo è il suo pensare di essere al di sopra di tutti, estraneo a ogni situazione, spettatore della sua stessa vita. Mentre il mondo palesa la sua limitatezza ecco il colpo di scena, qualche piccola riproduzione del Bambin Gesù emerge nei luoghi più poveri del Terzo Mondo, nelle capanne più mal ridotte, lì dove la gente non ha alcuna ricchezza ma vive di quel poco che la vita gli concede. La notizia di questi ritrovamenti fa presto il giro del mondo, i ricchi offriranno le somme più ingenti per avere quel piccolo e raro tesoro, un buon motivo per il Bambin Gesù per sparire ancora.
Trascorse un anno e giunse un nuovo Natale, le madri rassicuravano i bambini che Gesù sarebbe tornato e avrebbe portato loro i regali più belli. La festa non mutò, assunse solo un atteggiamento più sommesso e meno rumoroso. Vista la grave perdita, il sentore che stessero celebrando un funerale e non una nascita simbolo di speranza, era già nell’aria, ma erano tutti troppo occupati o ottusi per rendersene conto. Tutto filò come sempre, ognuno ricevette i suoi regali quella notte, più uno.
Una busta da lettera nera giaceva al posto del Bambinello. Il mistero e lo sgomento non mollavano la presa.
“Per pochi minuti gli analfabeti riuscirono a leggere e i ciechi a vedere. E i sordi a udire chi leggeva… Mano a mano che si leggeva, spariva come il sole dietro le montagne o dentro il mare. Non erano parole da mettere via, quelle. Quelle non si potevano rileggere.”
Da lì in poi gli uomini tacquero, “ed era ora”. Tacquero di un silenzio freddo, come se il tempo si fosse bloccato e l’umanità avesse finalmente visto il suo vero aspetto: un ghigno malevolo, un animo corrotto, un cuore logoro. La storia non finisce qui, non vi dirò il contenuto della lettera perché rischierei di svilirne il significato, deve essere letta con lo stesso stato d’animo di sorpresa e curiosità che il libro esige.
Corona ci ha fatto riflettere con ilarità per tutta la durata di questo breve racconto, ma il finale è feroce e, anche se svelerà ogni mistero, dalla scomparsa delle statuine a quelle lacrime color turchese, che sin dalla copertina combattono per venir fuori, l’unica cosa di cui v’importerà è quella busta nera che rileggerete fino a masticarne e sputare via le parole.
Questo libro lo dedico a tutti, senza alcuna distinzione. Che vi sentiate retti e giusti o l’ultimo gradino della scala sociale, se siete senza speranza o nonostante tutto, riuscite a colorare la vostra vita, sappiate che la realtà che c’è lì fuori è nostra e, ognuno di noi, ne è responsabile.
Buona lettura, alla prossima domenica con #insidethebook!
