Reggio, Horcynus Festival: Salvatore Arena narra ‘Quanto resta della notte’ al Castello Aragonese

Solo sulla scena, seduto su una sedia, nella cornice della suggestiva terrazza


“Lei sta poco bene, sta soffrendo, dentro ai polmoni ha una malattia, l’ha presa tutta e non le resta niente, solo qualche giorno e un pò di spiccioli, insomma caro Pietro tua madre sta morendo”. Dopo queste parole scritte dalla zia Dimma dalla Pianura, inizia il viaggio dentro e fuori di Pietro, il protagonista dell’intenso monologo “Quanto resta della notte”, scritto, diretto e interpretato da Salvatore Arena. La coproduzione Horcynus Festival e Mana Chuma Teatro, Compagnia reggina Premio Nazionale Critica 2019 ha caratterizzato anche quest’anno la sessione teatrale di Horcynus Festival Reggio Calabria.

Solo sulla scena, seduto su una sedia, nella cornice della suggestiva terrazza del Castello Aragonese, Salvatore Arena, attraverso un’interpretazione potente e incalzante, ha dato voce e corpo ad un flusso di memoria dolorosa, inesorabilmente impietosa o forse finalmente generosa, che ha lasciato al vento i veli che per decenni avevano impedito a Pietro di vedere e di perdonare. Perdonare quel tempo “fatto di misure” che era stato ciò che poteva, quel fiume in piena che seguiva “il suo corso” e faceva “solo il suo mestiere“, quel giovane, “solo un ragazzo”, rimasto immobile sulla sponda, quel giorno d’agosto pieno d’acqua. Perdonare e ritrovare una Fede, fino ad allora, interrogata invano.

«Siamo stati particolarmente contenti di aver potuto caratterizzare la sessione teatrale ‘Migrazioni tra terra e mare’ dell’Horcynus Festival Reggio Calabria anche con questo spettacolo, intimo e intenso, che consolida la tradizione, alla quale teniamo molto, di inserire una coproduzione Mana Chuma Teatro e Festival nel programma. In questo viaggio a ritroso, intimo e doloroso, che affonda le radici nei rapporti familiari irrisolti, un figlio, attraverso la memoria e tutto ciò che essa lascia riemergere, ritrova, quando sta per essere troppo tardi, ciò che di importante aveva lasciato indietro. Un testo non autobiografico che tuttavia richiama la vita di Salvatore Arena, snodata tra la Calabria dov’è nato, la Sicilia dove è cresciuto e l’Emilia Romagna dove vive», ha commentato Massimo Barilla, direttore artistico per il Teatro di Horcynus Festival.

Chiamato dalla lettera della zia, Pietro, dunque, parte “senza una valigia” perché quei pesi sull’anima e sul cuore bastano. Saluta moglie e figlio, ai quali torna tutti giorni dopo il lavoro senza mai vederli, e parte come se nulla di quegli anni di lontananza, fatta di “qualche lettera”, “qualche telefonata” a sua madre, meritasse di essere portato. Da solo nello scompartimento di un treno, con la “faccia sul vetro”, in viaggio verso la Calabria dagli alberi grandi che lascia di sé vedere il mare oltre la linea ferrata. Un ritorno di cui c’è un bisogno inconsapevole. Un richiamo divenuto improvvisamente impossibile da non seguire.

“Seduta lì, in cucina, nelle sue scarpe da uomo” mentre dentro di lui “suonava una nota, acuta e dura”, così Pietro ritrova sua madre profondamente cambiata mentre realizza: “(…)Nemmeno gli occhi erano rimasti azzurri solo gli scarponi della campagna di mio padre erano rimasti uguali”. Ritrova anche il resto della famiglia, zii e cugini impegnati a celebrare il suo ritorno e chiedere di una vita che abitava lontano, come una casa senza luci, al buio.

Che fa una madre quanto un figlio ritorna dopo tanto tempo? Che fa una zia quanto un nipote torna? Che fa uno zio? Che fa un padre quando il lume nel petto del figlio si spegne? Che fa Pietro quando un corpo pieno di acqua torna sulla terra? Che fa un figlio quando una madre in piena notte desidera un gelato al limone? Che fa? Una domanda che si incardina nei dialoghi fitti e incalzanti, che Salvatore Arena propone al pubblico con ritmo e sapienza, mentre piani temporali si inseguono, si sovrappongono, si intrecciano in una narrazione che svela il presente solo attraverso il passato, rendendo il futuro inaspettatamente possibile.

Domande che rispondono all’esigenza di porre la domanda che regge tutto il monologo, alla quale la risposta è un’azione mancata e rimpianta nel profondo di un’anima andata in frantumi. Una domanda che è in sé l’ammissione di una verità dolorosa che lo inchioda senza scampo e per sempre, che resta in bocca a lungo come il sapore amaro del limone.

Riemergono faticosamente i ricordi affidati alla comunità, testimone scomoda lasciata a distanza e che ha continuato ad aspettarlo e che adesso gli restituisce quella memoria rivelata e poi rimossa, confessata e subito dopo divenuta inconfessabile, cancellata chissà quante volte ma mai estirpata, mai totalmente raschiata da quel fondo di coscienza. Come quella macchia di sangue sulla federa, lavata via con il sapone e un forte e ostinato sfregamento.

“Mi metto a strofinare e non mi fermo. La rabbia intrisa al sangue si cancella col sapone di Marsiglia e sfrega, sfrega, un pulire, un ripulire e poi sciacquare. Via! Via! Via macchia rossa via! Da questo panno, via che torna bianco e poi rientro dentro. E mentre io lavavo, le lacrime scendevano dagli occhi, la pioggia sotto il tetto delle ciglia, un misto di salato sulla lingua. La cosa mi sorprese all’improvviso. È così che piange un uomo? Non ricordo! Qualcosa era successo, la morte che abitava dentro il rosso e la vita dentro il petto mi bussava”.

Un viaggio a ritroso verso una memoria sepolta che il richiamo di una madre, con il suo amore irriducibile, disseppelle insieme al rimorso e alla rabbia, a quella sabbia di parole rimasta per decenni incastrata tra i denti, a quel fango sulla faccia mentre la pioggia si infittiva, al ricordo del fratello Antenore con i suoi occhi verdi che faceva tante domande, che voleva sentire sempre la stessa storia, che ricordava le poesie a memoria, di Antenore che inseguiva la palla fino a tuffarsi in acqua, a quella spasmodica camminata a vuoto ai margini del fiume, a quel gioco che non poté restare solo un gioco, a quella palla rossa avvelenata, prigioniera, spensierata, poi perduta e ritrovata.

“Era mio padre quello, era più di un padre, era un colore che avevo perso. La luce dentro la croce era svanita, ero senza forze come svuotato, eppure mai così pieno. Quasi l’alba, la pioggia era finita. E mia madre? Mia madre mi aspettava a casa, mia madre aspettava il suo gelato. Nelle mani una palla rossa e dei limoni. Prendo a camminare lento, lento sotto gli alberi e sorrido, Mi sento vivo, mamma, non ho più quel nero in bocca (…)Non mi duole più l’anima al petto, mamma, non sono più un angelo sporco. Mamma, Antenore è qui con me ed io respiro (…)”.

In pochi giorni il senso di una esistenza si dipana attraverso il tempo e gli affetti che lo hanno imprigionato. Adesso quell’amore, che Salvatore Arena cita solo all’inizio e alla fine del monologo per rivelarne ogni volta la profonda essenza (“qualcosa che ti fa sorridere anche quando non ne hai voglia”), può curare quella ferita recondita e nascosta, può articolare un linguaggio liberatorio che porta fuori ciò che era rimasto a lungo schiacciato nel fondo del petto.

“Pregavo sorridendo. Perché è questo l’amore, qualcosa che ti fa sorridere anche quando non ne hai voglia (…) Aveva ragione mia madre, bisogna perdonarlo quell’inverno, restituire al vento le sue rondini, perdonare queste gambe e queste mani, questa mia bocca arsa e questi occhi. Era solo un ragazzo, pensai, ero solo un ragazzo. Così finì il mio viaggio da mia madre. Vissuto tra la rabbia e il perdono a noi stessi, all’acqua, un viaggio nel pianto e dentro il fiume, tra palle rosse e croci scorticate, un viaggio di tre giorni dentro di me, fuori di me. Un viaggio di tre giorni. Tre giorni lunghi e brevi della mia vita”. Così pensa Pietro che, finalmente, si sente libero anche se addolorato. Un dono a lungo segretamente desiderato, un dono inaspettato come un cielo d’inverno in cui le rondini volano basse e le nuvole sono finalmente scomparse.

«E’ una storia di salvezza che ciascuno può trovare attraverso il perdono di sé e degli altri. E’ la storia del ritorno di un figlio dalla madre, soprattutto di un viaggio dentro di sé, alla ricerca di ciò che svela il senso profondo di tutto», ha commentato Salvatore Arena, attore regista e drammaturgo (vincitore del Premio Ubu e del premio Eolo).

Ha collaborato con artisti importanti quali Marco Baliani, Letizia Quintavalla, Scimone e Sframeli e dal 2002 codirige Mana Chuma Teatro, sviluppando con Massimo Barilla un percorso di ricerca tra forme altre di narrazione e nuova drammaturgia (“Spine” finalista Premio Ustica 2003). Anche in questa occasione per lui una toccante interpretazione molto apprezzata dal pubblico. Salvatore Arena ha voluto dedicare la serata a tutti coloro che non sono mai sul palco e che rendono possibile ogni spettacolo, specie in questo momento di grande difficoltà per il settore.

Lo spettacolo ha rinsaldato l’importante e virtuosa consuetudine che vede Horcynus Festival al fianco di Mana Chuma Teatro, Compagnia reggina insignita del Premio Nazionale Critica 2019 anche per la sua capacità di sperimentare, di confrontarsi con l’identità culturale e storica del territorio meridionale e di promuovere “Una ricerca tra parole, gestione segni che anima un costante percorso di sperimentazione approdato anche nell’Horcynus Festival promosso dalla Fondazione Horcynus Orca, di cui Mana Chuma è tra i fondatori. Spunti e suggestioni di un sud arcaico, vitale e vibrante di colori e tradizioni che si mescolano ad un’attenzione costante alle istanze di un territorio dolente ma pulsante di vita e che trama i lavori della compagnia. Narrazione, sperimentazione anche in luoghi “altri” al teatro si fondono poi ad un impegno civile che si fa grido di libertà e bellezza”. Questo un brano estratto dalla motivazione del Premio.