Caos Ripepi, parla il fratello Roberto: ‘Lo chiamano papà perchè lo amano. Sono pastore, non carabiniere’
Una storia dai tratti pasoliniani, in cui l’unica vittima incolpevole è una bambina di 9 anni vittima di abusi
08 Dicembre 2020 - 09:22 | di Vincenzo Imperitura
Arroccato nel palazzone sulle colline di Campo Calabro, Roberto Ripepi, ministro di culto della chiesa di “Pace” e diretto superiore – almeno a livello strettamente gerarchico – del fratello Massimo, consigliere comunale e “padre-padrone” della comunità religiosa, lo mette subito in chiaro:
ROBERTO RIPEPI E LA COMUNITA’ RELIGIOSA DI CAMPO CALABRO
«Il problema è che noi facciamo politica, perché per noi, intesi come comunità, fare politica da cristiani è importante per determinare i principi della società. E lo sappiamo che fare politica a Reggio per noi, significa andare al macello. Se noi fossimo una semplice chiesa di culto – racconta Ripepi in una stanzetta di questo grande palazzo non ancora terminato che ospita, oltra alla sala per le funzioni, anche una serie di laboratori, un centro sociale e una manciata di stanza da letto – non saremmo sempre sotto attacco, ma non siamo quel tipo di chiesa e quindi si riferiscono a noi come a una setta».
Circa 400 associati, con uno zoccolo duro di almeno 250 fedeli alle funzioni domenicali, la comunità religiosa di Pace, nasce nei primi anni del nuovo secolo da una “scissione” con la chiesa evangelica di Gallico e si trasferisce, con una buona dote di fedeli al seguito, sulle colline di Campo Calabro, pochi chilometri a nord.
Cristiani, predicano una versione particolare del protestantesimo (il loro fondatore, il pastore Perri, si definiva Apostolo) e vivono una situazione da “separati in casa” con le altre confessioni luterane presenti nel reggino.
PAPA’ MASSIMO E LA STORIA TREMENDA
Alla guida di questa comunità c’è “papà Massimo” – così lo chiamano i suoi seguaci «afflitti dal dolore per questa vicenda» – il pastore prestato alla politica, finito travolto dallo scandalo sulle presunte pressioni esercitate, per non farli denunciare la violenza subita dalla figlia, su una coppia di fedeli che, scrive il giudice del tribunale minorile di Reggio, «si sono fatti pesantemente condizionare dal pastore a capo della comunità religiosa da essi frequentata, cedendo alle sue assurde pressioni».
Una storia tremenda (non la prima con risvolti oscuri che riguardano direttamente il pastore Massimo Ripepi) che il ministro di culto prova immediatamente a smontare, facendo quadrato a difesa del fratello pastore-consigliere e abbandonando a se stessa la famiglia di ex adepti che ha denunciato le pressioni:
“Sapevamo del racconto che la bambina aveva fatto a sua madre rispetto a quello che sarebbe successo con suo zio, ma era un racconto molto generico, la stessa mamma non sapeva se credere alla bambina o meno, perché si trattava del fratello, che da parte sua ha sempre negato tutto. Noi non avevamo la certezza che la violenza fosse avvenuta. Non c’erano evidenze».
DIFESA SERRATA DEL FRATELLO ROBERTO
E pazienza se le evidenze sarebbero dovute arrivare da una bambina di nemmeno 10 anni.
Una difesa serrata, senza se e senza ma, in cui la violenza subita dalla bimba passa quasi in secondo piano, per un episodio di presunto lavaggio del cervello finito per conoscenza anche sul tavolo della procura ordinaria e che è già costato il posto da coordinatore di Fratelli d’Italia in città, al politico-pastore che puntava a un seggio sicuro a palazzo Campanella, partendo dalla roccaforte di voti rappresentata dalla sua comunità.
«Noi non possiamo cacciare le persone perché hanno un pregresso – racconta ancora Ripepi – lo zio della bambina era attenzionato da noi, lo curavamo, non lo lasciavamo mai solo con gli altri bambini. Mio fratello Massimo è stato molto severo in questo senso. Quando una persona viene dal pastore per avere un consiglio spirituale io glielo posso dire vai a denunciare, però io poi sono un pastore e non un carabiniere, e se poi quello non ha fatto niente? In questa storia è stato fatto passare che la signora voleva denunciare e mio fratello l’ha convinta a non farlo e questo è falso. Anzi, la signora ha continuato a frequentare il fratello (già condannato a 8 anni per violenza sessuale su minori in passato, fatto conosciuto da tutti all’interno della comunità, ndr) anche dopo che si sono allontanati dalla comunità».
ROBERTO RIPEPI: ‘LO CHIAMANO PAPA’ PERCHE’ LO AMANO’
A metà mattina, nel piazzale di fronte al palazzo con vista mozzafiato sullo Stretto, i fedeli sono ancora pochi e nessuno ha voglia di parlare di quanto successo al capo carismatico della loro comunità:
«Noi qui viviamo come una famiglia, chi viene qui da noi lo fa perché ha ricevuto del bene, è un fatto di fede – racconta ancora Ripepi – e siamo tutti molto vicini alla figura di mio fratello: lo chiamano papà perché noi viviamo la fede come una famiglia, ma non è un obbligo; lo chiamano papà perché lo amano, gli vogliono bene e si rivolgono a lui se hanno problemi, ma ora i credenti sono mortalmente afflitti, perché vedono accusato di una cosa infamante una persona che amano, mentre sanno che le accuse sono false. Questa signora avrebbe detto tutte queste bugie, per addossare la colpa a Massimo prendendo spunto dalla sua carismaticità. Quando ha visto che la patria potestà le veniva tolta, l’unica cosa che poteva fare per discolparsi, era dare la colpa a un altro e mettere l’aggravante del plagio».
BIMBA DI NOVE ANNI, LA VERA VITTIMA
Una storia dai tratti pasoliniani, in cui l’unica vittima incolpevole è una bambina di 9 anni vittima di abusi da parte dello zio materno, e che, nel vortice esploso dopo lo scandalo, resta in secondo piano, sacrificata sull’altare di una difesa a oltranza al limite del cinismo:
«La merda era prevedibile e infatti la merda è arrivata, ma se le cose fossero andare come dicono loro – racconta ancora Ripepi in uno slancio involontario di realpolitik d’annata – noi avremmo denunciato subito e saremmo stati trattati come eroi, come quelli che hanno fatto arrestare il colpevole. Perché avremmo dovuto difendere quell’uomo? Non è era una persona importante ma un poveretto che ha ricevuto tanto da noi, non ci voleva niente a scaricarlo».