Carcere di Reggio: Grand Hotel per alcuni, porta dell’inferno per altri
La storia del detenuto "suicidato"
27 Agosto 2020 - 09:01 | Vincenzo Imperitura
Per alcuni detenuti, quelli con un pedigree criminale di rispetto, era diventato una sorta di Grand Hotel, con lavori scelti a tavolino, permessi à la carte e pasticcini recapitati direttamente in cella, per altri, poco più che straccioni, magari tossicodipendenti, il carcere di Reggio si era trasformato nell’anticamera dell’inferno. C’è anche la storia di Maurilio Pio Massimiliano Morabito nelle pagine dell’ordinanza con cui il Gip di Reggio ha disposto i domiciliari per Maria Carmela Longo, ex direttrice del carcere reggino. Una storia di quelle che nelle carceri italiane, stipate come mai, succedono spesso e che sempre più spesso non riescono nemmeno a essere identificate. Maurilio Morabito era un uomo che il carcere lo aveva conosciuto spesso: piccole cose, per lo più reati legati alla droga e nella struttura del Gebbione ci era arrivato nel marzo del 2016 con una pena di un paio di mesi da scontare. Finisce in una cella con altri 5 detenuti, due di loro sono di Paola. Ma le cose non vanno bene e il detenuto viene spostato in una cella singola con il divieto di incontro con gli altri reclusi prima di essere trasferito nel carcere di Paola, dove generalmente finiscono i detenuti destinati a lunghe pene, il primo aprile e dove verrà trovato cadavere la mattina del 29. Suicidio, diranno i responsabili della casa circondariale: una tesi che però, a leggere le carte, non convince proprio nessuno, nemmeno la stessa Longo, che pur essendo a conoscenza delle minacce subite da Morabito e della lettera che lo stesso detenuto aveva consegnato al padre durante un colloquio in cui denunciava la certezza di essere ucciso – scrive il Gip nelle 250 pagine d’ordinanza – non si è comunque mai degnata di denunciare l’accaduto.
SE MI TROVATE MORTO NON MI SONO SUICIDATO
È proprio l’ex direttrice – al momento del suo arresto al comando della sezione femminile del carcere di Rebibbia a Roma – a raccogliere lo sfogo a cui il padre di Morabito, ambulante originario di Melito, si lascia andare nell’ufficio della Longo. «I fatti iniziarono qui ad Arghillà – racconta in lacrime Morabito alla direttrice – perché lui ha dichiarato che aveva problemi e temeva per la sua incolumità. Durante il colloquio mi ha raccontato che hanno iniziato a fargli il cappotto, per ammazzarlo. Erano in sei. Ad Arghillà».
A seguire il racconto del padre di Morabito, il detenuto era stato avvicinato dai suoi compagni di cella che lo avevano pressato per ottenere da lui un favore: «Non mi ha detto che favore, ma lui gli ha detto di no, il favore non ve lo faccio e non ve lo posso fare, che ormai mi rimanevano solo due mesi di carcere».
Un rifiuto che però avrebbe scatenato la rabbia degli altri detenuti che, di notte «dice uno l’hanno messo per il palo, lì alla porta e tre hanno agito, due con la busta per mettergliela in testa e uno con la coperta. Dice, io sono riuscito a divincolarmi sono saltato dal letto, ho preso le sedie e mi sono difeso».
Subito dopo questo agguato, Morabito chiede di essere ascoltato da un vice commissario della penitenziaria che dopo il colloquio dispone il trasferimento in una cella singola prima del trasferimento a Paola. Ma in quella lettere di trasferimento, disposte dalla direzione, non viene riportato nessun riferimento a «l’eventualità che il detenuto possa avere problemi con i detenuti di Paola». Una mancanza che, forse, è costata la vita a quel detenuto che non aveva voluto fare un favore ai compagni di cella.
«Vai subito dai carabinieri e denuncia – racconta ancora Morabito riferendo alla Longo dell’ultimo colloquio con il figlio all’interno del carcere di Paola: mancano pochi giorni alla scoperta del cadavere – il prossimo giovedì non mi trovi, hanno incaricato già tre elementi per ammazzarmi… papà sono tutti corrotti, la guardia notturna sa tutto, vengono, aprono, mi ammazzano e poi fanno finta che mi sono impiccato».
Maurilio Morabito verrà trovato morto “impiccato” all’interno della sua cella il 20 aprile del 2016. Cinque mesi dopo, le cimici del reparto investigativo del Dap intercettano lo sfogo denuncia del padre di Morabito nel quale la Longo viene a conoscenza anche del movente, il favore, che sarebbe alla base della morte del giovane tossicodipendente: i presupposti per stendere una notizia di reato «ci sarebbero tutti – annota il Gip – ma la direttrice gnorri, non ha fatto nulla».