Musikanten – Freddie Mercury e l’Aids, piaga cambiata con il tempo


di Enzo Bollani – Era facile immaginare, prima ancora che uscisse, il successo italiano di Bohemian Rapsody, di gran lunga superiore rispetto ai risultati ottenuti in qualsiasi altra nazione. D’altronde, agli italiani piace la musica, in ogni sua sfaccettatura, anche se è raro trovare la stessa qualità anglo americana, nelle produzioni del nostro Paese.

Una distonia che ci portiamo dietro dagli anni ’30, e che è difficile togliersi, nonostante alcuni artisti siano capaci di consensi interplanetari, come il mistero Laura Pausini, o il già molto meno mistero Eros Ramazzotti, o il per nulla mistero Andrea Bocelli, vincitore di tutto, meno che a Sanremo. E questo non è un mistero.

E non è vero che si debba arrivare per forza ultimi, perché va bene anche penultimi o terzultimi. L’importante è non vincere. Anche perché quello che usava l’imperativo vincere, alla fine della fiera, non è che abbia vinto molto, soprattutto dopo avere perso. Prima, vinceva anche le copertine del Time, oltre al totale appoggio della Chiesa.

Una delle tante sviste cattoliche. Che disdetta… Ciò detto, va precisato che il film sia molto bello, ma questo lo sappiamo quasi tutti. Avere impiegato anni, a realizzarlo, ha portato i suoi frutti, e la fortuna è non avere affidato la parte del protagonista ad Ali G, aka Borat, aka tante cose che avrebbero distolto l’attenzione dalla narrazione.

Qualcuno ha avuto da dire, al di là delle solite critiche che è lecito aspettarsi dai critici, e che però sono spesso più sbagliate delle posizioni vaticane, su un tema molto chiaro e affrontato senza mezzi termini, come è giusto e doveroso sia, non solo per cronaca: la diversità. Qualcuno pensa ci sia un velo di omofobia, nel film. Non so se sia un limite, o se sia omofobia anche questa, ma a me pare sia tutto meno che un film fobico verso qualsiasi cosa.

Casomai, svela certi meccanismi comportamentali tipici, meschini, avidi e negativi. Senza alcun pudore e senza vergogna, come si suol dire. Ma i casi di omofobia sono altri, nella storia della Musica, prima ancora che nella storia del Cinema. Senza allontanarsi troppo dalla Terra della Brexit, casomai un po’ Eurofobica, soprattutto verso l’interno e non certo a Londra, basta andare a rebours di appena un lustro, rispetto al 1970 fatidico tanto per i Queen, quanto per gli scioglituri Beatles, per trovare un caso di emarginazione improvvisa, di imbarazzo ingestibile: Dusty Springfield.

La cantante britannica, capace di portare al successo mondiale una canzone italianissima, di Pino Donaggio, ossia “Io che non vivo”, venne messa in un angolo, per anni, dopo che la stampa scandalistica la mise in croce per la sua natura omosessuale. Natura, e non tendenza.

Il tema dell’AIDS, nel film, oltre al tema dell’omosessualità non dichiarata di Freddie Mercury, tenuta nascosta per anni, e non certo emersa dal nulla o all’improvviso, viene trattato con eleganza rara. Anche perché c’è uno sdoppiamento di diversità e di rischio di emarginazione: da un lato, l’omosessualità, che però allora era sdoganata molto più di oggi, a patto di essere artisti; dall’altro, l’incombere dell’AIDS, scambiato per la “peste del 2000”, fino a tutti gli anni ’90.

Fintanto, cioè, che se ne è parlato. Fintanto che si moriva. Oggi, per fortuna, di AIDS si può persino non morire, ma è sorto un problema collegato a questo dettaglio: si può usare l’AIDS come arma contro qualcuno, anche quando non esiste. Così, a scopo denigratorio e gratuito, come alcuni casi hanno già evidenziato. Casi di propaganda negativa, e non di sindrome.

Purtroppo, però, l’omofobia non è ancora scomparsa e, anzi, si è innescato un circolo vizioso, a mio avviso, e sottolineo a mio avviso, legato al fatto che la diversità debba essere imposta attraverso carri carnevaleschi ed esibizioni inutili, sulle quali sono d’accordo con Giorgio Gaber, a suo modo un diverso, visto che per anni ha dovuto convivere con i postumi della poliomielite.

Al di là del fatto che l’omosessualità venga ancora scambiata, da molti, per una malattia mentale, esattamente come quando Pier Paolo Pasolini girò l’Italia per chiederlo alla gente, l’errore in cui incappano molti si palesa nel legare omosessualità e AIDS, come se fosse retaggio esclusivo, come se non fosse un rischio per tutti. Soprattutto oggi, con un ritorno di questa ed altre sindromi o malattie veneree, passate letteralmente sotto silenzio. Un silenzio assordante, anche nei confronti del ritorno delle siringhe. Va bene il revival, ma non per tutto.