‘Non sono una scafista, cercavo la libertà’: Maysoon Majidi si racconta a CityNow

Dall'inferno del carcere alla rinascita dopo l'assoluzione. Il viaggio dell'attivista curdo-iraniana in fuga dalla repressione: "Siamo rifugiati, non criminali"

maysoon majidi

Tra i tintinnii dei bicchieri e la musica live che accompagna i reggini nella loro serata in via Zecca, c’è anche lei, Maysoon Majidi. Il suo sguardo è quello di una donna di 28 anni che ha vissuto troppo per la sua età. Ha attraversato il dolore, la paura, la prigionia, ma nei suoi occhi brilla ancora la speranza. Perché oggi, finalmente, è libera.

Un incontro fortuito, quasi casuale, ma di quelli che restano impressi nella memoria. Maysoon è a Reggio Calabria per una breve visita e racconta di aver trovato un’atmosfera accogliente, un’aria diversa, carica di calore umano.

Si trova in riva allo Stretto ospite dell’avv. Antonino Polimeni, che nell’estate scorsa aveva tentato come socio di Amnesty Italia, insieme a Pegah Moshir Pour, nota attivista iraniana, di ottenere un colloquio nel carcere reggino dove era stata imprigionata.

“Sono qui in visita e devo dire che qui si respira un’aria davvero bellissima”.

Parole semplici, ma che racchiudono il senso di libertà ritrovata dopo quasi dieci mesi trascorsi dietro le sbarre di una prigione italiana per un’accusa infamante e ingiusta.

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Dall’inferno alla libertà: il caso di Maysoon

Maysoon Majidi è un’attivista curdo-iraniana. Nel 2023 ha lasciato il suo paese per sfuggire alla repressione. Il 31 dicembre dello stesso anno, è arrivata in Italia dopo un viaggio estenuante, sbarcando sulle coste calabresi. Ma quello che doveva essere un nuovo inizio si è trasformato nell’inferno della detenzione. Accusata di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare e indicata come scafista, è stata arrestata e condotta nelle carceri di Castrovillari e Reggio Calabria. Le accuse contro di lei si basavano sulle dichiarazioni di due compagni di viaggio che, successivamente, hanno chiarito di non averla mai identificata come la capitana dell’imbarcazione. Un errore giudiziario che le è costato quasi dieci mesi di libertà.

Il 22 ottobre 2024, finalmente, è stata scarcerata.

“Dopo 400 giorni sono felice. Aspettavo di avere giustizia da parte dell’Italia, un paese libero, in cui la democrazia è sovrana, un paese che crede nei diritti umani. Aspettavo di ricevere esattamente questo. E anche se troppo tardi, la giustizia è arrivata”.

Nel suo racconto, il dolore si mescola alla gioia, la sofferenza alla gratitudine. La sua voce è carica di emozione quando parla delle persone che, dopo la sua liberazione, le hanno scritto e telefonato.

“Ho ricevuto tantissimi messaggi e chiamate, anche dai miei vecchi amici in Iran. Non me l’aspettavo, perché loro non avevano notizie chiare su di me. Tutti sapevano cosa era successo, anche se non nel dettaglio. Mi sento davvero strana – ha cercato di spiegare – felice e triste al tempo stesso”.

La rabbia contro chi ha distrutto la sua patria

Maysoon non ha dubbi su chi sia il vero responsabile delle sue sofferenze. La sua rabbia è rivolta contro il regime iraniano, contro chi ha trasformato il suo paese in una prigione a cielo aperto.

“La colpa è di coloro che hanno occupato la mia patria. Doveva essere così? Io non li perdonerò mai. Li odio”.

Nonostante tutto, la sua battaglia non si è fermata. Anzi, la prigionia l’ha resa ancora più determinata.

“Anche dopo ciò che è successo, ho ancora più voglia di combattere, come facevo prima, contro la Repubblica Islamica, contro chi ha occupato la mia patria”.

Spesso, nei lunghi mesi trascorsi in tribunale, ha trovato forza nelle parole della poesia che non smette di ripetere:

“Vengo da una terra che ha tutto, tranne la libertà, che è in mano ai saccheggiatori”.

Una frase che racchiude il dramma di un’intera generazione, costretta a lasciare la propria casa per poter sognare un futuro.

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La Calabria e l’incontro con Mimmo Lucano

Oggi Maysoon e suo fratello sono parte di un progetto speciale per rifugiati a Sant’Alessio, ma la burocrazia italiana resta un ostacolo alla sua definitiva stabilizzazione.

“Non so quando finirà la burocrazia per ottenere il permesso di soggiorno”.

Maysoon ha trovato sostegno e comprensione in una figura simbolo dell’accoglienza: Mimmo Lucano.

“Penso che Mimmo Lucano sia una persona con grande comprensione. Anche lui ha una storia alle spalle. Lo rispetto molto per tutto ciò che ha fatto per i migranti. Anche io sono stata a Riace dopo essere uscita dal carcere e Mimmo Lucano mi ha fatto dono della cittadinanza onoraria. Lo ringrazio per essermi stato vicino”.

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“Siamo rifugiati, non migranti”

Maysoon porta avanti una battaglia culturale importante: distinguere i rifugiati dai migranti economici. Troppe volte, infatti, chi fugge dalla guerra e dalla persecuzione viene visto solo come un immigrato in cerca di fortuna.

“Le persone che vengono qui non vengono sempre per fame. A volte sono l’élite della loro terra, persone che scappano dalla guerra perché rischiano la vita, perché combattevano contro un grande dittatore. Queste persone non vengono per motivi economici. Per favore, guardate in modo diverso i migranti e i rifugiati. Tutti noi siamo esseri umani e abbiamo dei diritti, come quello di vivere dove vogliamo. Di avere una terra madre. La nostra storia è diversa”.

La sua voce si fa ancora più intensa quando parla delle rotte della disperazione.

“Perché i rifugiati non possono fuggire in modo legale? Noi ci battiamo per i diritti, ma siamo costretti a pagare per affrontare un viaggio tremendo. Troppo spesso in tribunale ho ripetuto questa domanda”.

Un futuro da costruire, una battaglia da vincere

Maysoon non sa ancora cosa il futuro abbia in serbo per lei. Dopo tutto ciò che ha passato, sente il bisogno di fermarsi, di riprendere in mano la sua vita, di capire quale sarà il suo prossimo passo.

“La mia lotta sarà ancora più forte, per tante persone che hanno bisogno di me. Ancora non so cosa mi aspetto dal futuro. Ho bisogno di prendermi del tempo per ritornare alla vita e capirlo”.

Ma una cosa è certa: la sua battaglia per la libertà non finirà qui. Il suo appello è un grido di giustizia che risuona oltre i confini dell’Italia, un monito per chi ancora oggi chiude gli occhi di fronte alla sofferenza.

“Chi scappa dalla guerra, dalla tortura e dalla prigionia affrontando un viaggio che gli potrà costare tutto, inclusa la vita, viene qui in cerca di libertà. Perché accanirsi contro queste persone? La loro colpa è forse quella di essere nate nella parte sbagliata dell’emisfero?”.

Maysoon non ha dubbi su chi sia il vero nemico.

“La colpa è il silenzio. Dobbiamo trovare una soluzione globale. Il richiedente asilo non è un criminale. I dittatori lo sono. E sono loro quelli da combattere, insieme”.

Dall’inferno alla rinascita

Maysoon Majidi oggi è libera, ma non dimentica chi ancora è oppresso, chi ancora lotta per la propria libertà. Se l’inferno l’ha segnata, oggi la sua rinascita è il simbolo di una battaglia che non si arresta. Una battaglia che Maysoon continuerà a combattere, per sé stessa e per tutti coloro che ancora non hanno voce.