Massimo Dapporto a CatonaTeatro. Un borghese piccolo piccolo incappucciato al potere delle logge massoniche - FOTO

di Anna Biasi - Bastano 5 attori ed una scenografi

di Anna Biasi – Bastano 5 attori ed una scenografia minimal composta da pochi attrezzi di un capanno, barattoli e cassette di legno, un retino da pesca, una porta rossa, delle tazzine da caffè, una televisione, una valigia, due cappucci neri a punta della loggia massonica, un frigorifero, un telefono che squilla, un tavolo, una scrivania del Ministero con la bandiera dell’Italia e raccoglitori e plichi di documenti, per ricreare le scene del romanzo di Vincenzo Cerami pubblicato nel 1976.
Basta la bravura di Susanna Marcomeni, Roberto D’Alessandro, Matteo Francomano, Federico Rubino, Massimo Dapporto e la luce che si sposta costantemente da una scena ad un’altra per immaginarsi in luoghi e tempi differenti.
Una storia del tutto attuale che ripropone l’Articolo 3 della Costituzione Italiana in cui tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge ed hanno pari dignità sociale, il cui sogno di Mario è vincere il concorso con la sola capacità di studiare.
Con in mano il bando del concorso per il figlio Mario, Massimo Dapporto nei panni di Giovanni Vivaldi apre con un monologo d’autore ricco di ambizione: “Oggi va tutto bene, il Comune, l’Anas, il Governo… tutto bene! Oggi mi sento pieno, non lo so nemmeno io perché… forse perché nel mio piccolo anch’io ho fatto qualcosa… famiglia di contadini la mia… ma io sono venuto in città così pieno di entusiasmo, di speranze e voglia di fare, che col tempo, da contadino morto di fame, sono diventato un burocrate del Ministero. Sarò pur invecchiato… ma non inutilmente, se oggi per mio figlio tutto è a portata di mano: la casa, la famiglia, l’ufficio, la carriera”.
Giovanni è un uomo di provincia e dopo trent’anni di lavoro al Ministero, pronto per la rendita (la pensione), è solo in cerca di una spintarella per il figlio. Successivamente al colloquio, scoprirà che l’unico modo per ottenere la raccomandazione sarà quello di raggirare le regole della società grazie all’aiuto della massoneria. Da quel momento in poi la vita e il suo operato saranno dedicati al bene comune del popolo (come se prima non fosse così), e l’unico problema rimane la troppa libertà: la libertà è fare quello che mi pare…
Vicenda tremendamente moderna e portatrice di valori come la fratellanza, l’amore per gli altri, il rispetto, la generosità dei sentimenti in cui tutto si deve all’Italia, alla Nazione, al Paese, alla Patria piuttosto che a sé stessi.
Forse il concorso del figlio Mario può essere il riscatto per tutti quelli che come Giovanni Vivaldi non hanno mai avuto spazio in questa Nazione ma tutto, però, dipende dall’alto della loggia massonica. La salvezza dell’Italia è sapersi riconoscersi e distinguersi fratelli o profani secondo manuale, attraverso piccoli gesti in codice, come la mano portata casualmente al cuore oppure presentandosi infilando il dito nella manica. Non mancano importanti citazioni esemplificative del racconto, come quella di Honoré de Balzac “Di corruzione ce n’è tanta, il talento è raro. Perciò la corruzione è l’arma della mediocrità che abbonda…”
L’iniziazione per accedere alla luce è dalle tinte grottesche, attraverso la prova del fuoco, del sangue e della morte, caricando di allegria e sminuendo la scorciatoia trovata per l’aspirazione del figlio.
In maniera sottile il regista Fabrizio Coniglio, diplomato presso la scuola del teatro Stabile di Genova, equipara la massoneria al cristianesimo che attraverso le prove simboliche tende al bene della comunità ed agisce nel vero, caricando di romanticismo e tenerezza la tragicommedia sulle note di Sergio Endrigo in Io che amo solo te… quando i sogni sembrano intraprendere la strada giusta.

Il destino, però, risulta essere fatale ed è proprio in questo essenziale nodo narrativo che il capolavoro viene espresso alla perfezione dalla grande interpretazione di Massimo Dapporto e Susanna Marcomeni sulle musiche di Nicola Piovani. Sembra esser più facile trovare un posto al Ministero che al cimitero, in cui le bare sono tutte accatastate l’una sull’altra, denunciando tra le righe la mancanza di sepoltura che farebbe incazzare anche i morti.

Amalia Vivaldi (la moglie) interpreta magistralmente il ruolo di madre apprensiva per il concorso del figlio, la quale poco prima prega con espressività e poco dopo effettua riti con il sale per attirare la Provvidenza, fino a ridursi ad uno stato quasi vegetativo.
È spettacolare, invece, Massimo Dapporto nella recitazione intima, quando implora pazienza e quando finge di camminare; anche nella finzione della giornata di pioggia e quando anche la radio riprende a funzionare, l’alone di magia teatrale prende forma.
Amalia e Giovanni si avvicinano in silenzio, strozzati dall’angoscia e diventa affligente la dettagliata descrizione dell’uccisione del colpevole e il seppellimento sotto un albero di fico.
Quando la morte prenderà il sopravvento l’unico spazio che rimarrà al romanzo sarà la superficialità dell’addetto del ministero per cui giorni da vivere così saranno troppi e la reiterazione finale conta i passi e conduce sull’orlo della follia!

Foto a cura di Antonio Sollazzo

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